In attesa che il Governo vari il “Decreto Aprile”, che dovrebbe prevedere nuovi e più corposi stanziamenti a copertura delle misure introdotte col “Decreto-Liquidità”, si discute intorno all’opportunità di affiancare alle garanzie pubbliche sui crediti bancari – notevolmente rafforzate col Decreto Liquidità – lo strumento dei contributi a fondo perduto erogati dallo Stato.
Secondo Banca d’Italia (si veda l’audizione alla Camera del 27 aprile scorso), più che di un’opportunità, si tratterebbe di una vera e propria necessità perché “una parte delle perdite subìte dalle imprese non sarà recuperabile e non tutti i debiti (assistiti da garanzie pubbliche) accesi per far fronte alla crisi saranno immediatamente ripagati al termine dell’emergenza sanitaria”.
Nella stessa direzione si era espresso il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, nel suo primo discorso (“La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta”) e qualche giorno fa è tornato sull’argomento anche l’ad di Intesa Sanpaolo (il principale gruppo bancario italiano), Carlo Messina, sottolineando che “le aziende hanno bisogno di finanziamenti a fondo perduto. Per tenere in vita chi ha perso 6 mesi di fatturato spesso non bastano aiuti che aumentano i debiti, perché i debiti vanno restituiti” (dall’intervista al Sole 24 Ore del 26.4.2020).
Sempre al fine di fronteggiare le conseguenze negative derivanti da un ulteriore aumento del livello d’indebitamento delle nostre imprese, già eccessivamente dipendenti dal sistema bancario, si stanno studiando altre misure, tra cui: l’introduzione di incentivi fiscali per agevolarne la ricapitalizzazione e la creazione di veicoli pubblici per la ristrutturazione del debito. Anche l’Assonime è intervenuta nel dibattito proponendo la costituzione di un Fondo, sempre partecipato dallo Stato, per acquisire i debiti con garanzia statale contratti dalle imprese e convertirli in capitale sociale. Una strada indubbiamente interessante per le imprese di medie e grandi dimensioni, meno indicata – a mio parere – per le piccole imprese perché sarebbe estremamente complicato gestire una miriade di micro-partecipazioni per poche decine di migliaia di euro l’una.
Per le aziende di minori dimensioni, invece, lo strumento più adatto per consentire loro di superare efficacemente la crisi è proprio quello – auspicato da più parti dei contributi a fondo perduto. Proviamo a immaginare come potrebbe essere disciplinato, tenendo presenti due priorità:
1. far affluire alle imprese la liquidità necessaria nel più breve tempo possibile;
2. calibrare l’aiuto all’effettivo danno subìto in conseguenza della crisi.
Per soddisfare entrambe le priorità, una soluzione sarebbe prevedere la possibilità di convertire i prestiti con garanzia pubblica (di cui al DecretoLiquidità o a provvedimenti successivi) in contributi a fondo perduto, subordinatamente al rispetto di determinate condizioni.
Per quanto riguarda il punto 1), sappiamo che l’iter per la concessione dei finanziamenti è stato in qualche misura già semplificato rispetto alle procedure consuete e i finanziamenti minori (fino a 25 mila euro) sono stati addirittura esentati dall’istruttoria. Ulteriori accorgimenti sono al vaglio delle autorità competenti (ad es. l’uso esteso dell’autocertificazione) per ridurre il più possibile i tempi di attesa ed evitare ritardi operativi dovuti all’elevato numero delle pratiche da esaminare.
Per quanto concerne il punto 2), come si potrebbe determinare l’entità del contributo? Proviamo a fare il seguente ragionamento.
Il presupposto dell’aiuto in questione è il sostenimento di una perdita da parte dell’impresa che ha dovuto interrompere l’attività o che, comunque, ha subìto un drastico ridimensionamento del suo volume d’affari. Questa perdita può essere teoricamente calcolata in due modi:
in base al fatturato perso nel periodo di lockdown, diminuito dei costi variabili, cioè di tutti quei costi che si sostengono solo se e in quanto si produce (in un ristorante, le materie prime per cucinare, il gas, l’elettricità, i servizi esterni per lavanderia, ecc.);
oppure in misura pari ai costi fissi, cioè a quei costi che gravano sull’azienda per il solo fatto che essa esiste, anche se non produce. Tipicamente: i fitti passivi, il costo della manodopera che non è possibile (o opportuno) licenziare, le assicurazioni, gli oneri finanziari, alcuni tributi, ecc.
La differenza tra i due criteri è che col primo viene incluso – se c’è – l’utile spettante all’imprenditore, col secondo no. I giuristi direbbero che col secondo criterio s’indennizza solo il “danno emergente”, col primo anche il “lucro cessante”.
Nel Decreto Liquidità – si noti bene non è stato utilizzato nessuno dei due suddetti criteri ma convenzionalmente, trattandosi di prestiti, sono stati scelti altri parametri: o solo il fatturato (il 25% di quello dell’anno precedente) o, se superiore, per alcune categorie di imprese, il doppio del costo del personale per tutto il 2019 oppure il fabbisogno per costi d‘esercizio e d’investimento (sempre su 12 mesi).
Quanto sopra ci consente di chiarire subito un punto e cioè che l’entità del contributo necessario per coprire la perdita non dovrà necessariamente essere uguale all’ammontare del prestito: potrebbe essere inferiore ma potrebbe essere anche superiore, eventualità – quest’ultima tutt’altro che teorica: se il lockdown, specie per determinati settori del commercio, dovesse ulteriormente protrarsi, l’anticipo di 3 mesi di fatturato potrebbe essere del tutto insufficiente.
Andiamo avanti col nostro ragionamento, assumendo di far riferimento alla nozione di perdita in senso stretto, ossia costi non coperti dai ricavi.
Una volta stimata l’entità di questa perdita, la domanda da porsi è: l’azienda riuscirà o no a recuperare la perdita attraverso i ricavi futuri? Saranno cioè sufficienti, quei ricavi, a coprire non soltanto i costi ad essi correlativi ma anche i costi passati che hanno generato la perdita in questione?
Qui sta il nocciolo del problema.
Ora, venendo alla situazione generata dalla pandemia, noi oggi non siamo in grado di stabilire se e in che misura le perdite da lockdown subìte dalla stragrande maggioranza delle aziende potranno o no essere recuperate, non potendosi ancora prevedere come sarà la tanto attesa ripartenza.
Quanto ci vorrà perché il sistema torni a girare come prima della pandemia? (obiettivo che, per noi, non sarebbe nemmeno il massimo della vita, visto che non cresciamo da oltre 20 anni!): ci vorrà un trimestre? Ce ne vorranno due? Di più? Si riprenderanno allo stesso modo tutti i settori produttivi o ce ne sarà qualcuno che stenterà a ripartire? E, a parte i fattori macro, assumerà rilievo anche la situazione della singola azienda: se faceva molti utili, è probabile che riesca a recuperare senza troppe difficoltà le perdite da lockdown, se invece andava così così, è altrettanto probabile che non ci riuscirà.
In questo quadro, lo strumento del prestito (con garanzia pubblica) convertibile in contributo a fondo perduto risponde alla seguente finalità: non ti dò subito il contributo perché potrebbe non servirti; per il momento però, visto che hai immediato bisogno di liquidità, ti concedo un prestito, se poi non sarai in grado di rimborsarlo e rispetterai determinate condizioni, te lo converto in un contributo a fondo perduto.
La trasformazione, del prestito in contributo a fondo perduto, potrebbe avvenire alle seguenti condizioni:
– l’azienda dichiara alla banca di non essere in grado di fronteggiare il prestito, suffragando tale dichiarazione con un’appropriata documentazione contabile, e ne chiede, per la parte che non riuscirà a rimborsare, la sua conversione in contributo a fondo perduto;
– contestualmente, s’impegna per tutta la durata residua del prestito e per un determinato numero di anni (5, ad es.) dopo la sua scadenza, a non distribuire gli eventuali utili per destinarli al rimborso del contributo, nei limiti – s’intende – della loro capienza;
– in caso di cessione d’azienda, entro i 5 anni successivi alla scadenza originaria del prestito (per riprendere l’ipotesi di cui sopra), l’imprenditore dovrà rimborsare il contributo fino a concorrenza del prezzo conseguito con la cessione;
– analogamente, in caso di successivo scioglimento dell’impresa, l’eventuale capitale ricavato dalla liquidazione sarà prioritariamente destinato al rimborso del contributo;
La banca inoltrerà la domanda dell’azienda e la propria valutazione di merito allo Stato che, eventualmente per il tramite del fondo che ha prestato la garanzia, esaminerà la richiesta dell’azienda e, se la ritiene ammissibile, autorizza la conversione del prestito in contributo. Se però l’azienda non rispetta le condizioni sottoscritte, decadrà dal beneficio concessole e tornerà ad essere debitrice nei confronti dello Stato per l’importo residuo del prestito.
Lo Stato, dal canto suo, rinuncia – è vero – in tutto o in parte ai suoi crediti. Si tratta però di una rinuncia sui generis, dato che tali crediti sono da ritenere interamente o in parte già perduti e quindi non recuperabili nemmeno in caso di liquidazione o fallimento dell’azienda debitrice. Senza questo intervento, la situazione dell’azienda andrà sempre più deteriorandosi, per effetto del cumularsi di perdite d’esercizio, fino a comprometterne definitivamente l’esistenza. Con conseguente perdita di gettito fiscale da parte dello Stato, per gli anni a venire, e un danno erariale potenzialmente molto più elevato.
Ma il problema di fondo è che se si continuerà ad intervenire con misure prive di un disegno unitario e a rinviare un non più differibile Progetto per la ricostruzione del nostro Paese, in affanno già da molto prima del Covid-19, nemmeno i contributi a fondo perduto meglio calibrati serviranno a qualcosa e migliaia di aziende chiuderanno ancor prima di averli ricevuti!